L’erba come archetipo
Scritto da Davide Macor il 29/01/2021
L’anno appena trascorso non è stato per niente facile, pure considerando la recrudescenza degli ultimi mesi. Anche l’Ecomuseo ha rallentato la propria attività: parte dei progetti sono stati sospesi, altri scivolati in avanti, altri ancora ridimensionati. Restano alcuni punti fermi. Uno di questi riguarda il sostegno che l’Ecomuseo garantisce alla Latteria turnaria di Campolessi, a cui è stato dedicato per il quarto anno consecutivo un lunarietto. L’edizione 2021 racconta, con gli scatti di Graziano Soravito, tutti i passaggi della filiera lattiero-casearia.
Nella pagina iniziale del lunario si fa riferimento alla Carta dei princìpi delle latterie turnarie promossa dall’Ecomuseo delle Acque e da Slow Food, in cui si riconoscono le latterie turnarie di Campolessi, Peio, Valmorel e il sistema di piccoli caseifici del comprensorio di Tolmin in Slovenia. Si tratta di un decalogo, definito da valori autentici: turnazione, alimentazione naturale, benessere animale, latte di qualità, formaggio artigianale, biodiversità e paesaggio, conduzione familiare, economia di relazione, prodotti diversificati, condivisione. Le quattro latterie ci credono e li applicano appieno. A proposito del titolo di questa news: ci è stato suggerito da Guido Masè, amico dell’Ecomuseo e autore di una breve recensione del lunario che abbiamo voluto riportare.
«Bellissima la foto di copertina, che mostra l’archetipo dei popoli alpini: un’erba grassa, ricca, nutriente… esagerata, forse, perché cresce nelle terre basse della piana gemonese. Evidentemente dotata di tutti i nutrienti e di tutti i sali, e vitamine, che confluiscono nel latte e dal latte nei latticini. La latteria turnaria di Campolessi è in tutta evidenza un’industria a ciclo chiuso: terra arata, pascolo estivo, fienagione per l’inverno, latte e sua lavorazione, latticini, freschi e stagionati, magazzino, spaccio di vendita. Tecnologia antica, aggiornata da una meccanizzazione a supporto della mente, della mano, dell’operatività e della mobilità dell’uomo, una macchina a modesto rendimento, ma con impatto molto basso. Supportare l’uomo, che lavora a mano, con una meccanizzazione semplice, che mantenga la preminenza dell’uomo stesso: questa è la chiave della sostenibilità. Se si automatizza, credo si debba attenersi a quantità compatibili con l’operatività antropica, sollevata dalla fatica, ma non sovrastata da una ripetitività abnorme, che non può essere sostenibile. Il lunario ben rappresenta la meccanizzazione dal volto umano: la falciatrice, che taglia e forma i rotoloni; la vecchia falce, per i punti marginali (ogni pianticella va colta, questa è la cultura antica); il trattorino con il ranghinatore per rivoltare l’erba; l’imballatrice; la falciatrice; le magnifiche macchine produttrici di latte e di vitelli, chiaramente dotate di anima (altrimenti non guarderebbero con tanta paziente attenzione il fotografo); la mungitura meccanica, guidata e controllata dalla mungitrice dal rosso grembiale, su una soffice lettiera erbosa; il candido latte, prezioso, conferito col bidone; la potenza titanica, un po’ inquietante, dei casari proiettati sulla caldaia della gialla cagliata: immensa, ma tuttavia alla loro scala; le pazienti macchinette per la pressatura; le delicate mani delle giovani casare alle prese con le tenerissime ricottine fresche; e infine il docile carrello a mano per archiviare le forme, non senza tastarle, controllarle, soppesarle da parte dei magazzinieri. E infine la dolcezza fiduciosa della fattrice, che si è data l’ombretto rosa sugli occhi e che si lascia coccolare da un esemplare maturo di razza umana, del genere migliore disponibile sulla piazza» (Guido Masè, docente all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia)